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ISSN: 2283-303X

Rileggendo l'ultimo capitolo di Understanding media: un tributo a Marshall McLuhan nel centenario della nascita

in Bibliografie, biblioteche e gestione dell'informazione: un omaggio a Francesco Dell'Orso


di Alberto Salarelli (in linea da: 2 gennaio 2017)
Pubblicato anche in lingua portoghese, col titolo Relendo o último capítulo de Understanding media. Um tributo a Marshall McLuhan no centenário de seu nascimento, in "InCID: Revista de ciência da enformação e documentação", 2, 2011, n. 2, p. 3-18.

Abstract

The article examines the arguments made by Marshall McLuhan in the last chapter of his book Understanding Media related to the impact of information technology on social organization. Written fifty years ago, they show today, with the advent of the network society, their full value by contributing to a real "McLuhan renaissance". Particularly this essay points out that McLuhan was not at all optimistic and enthusiastic about the computer revolution but instead, he expressed a very strong concern about the growing power of technology. This worldview relates McLuhan's thought to the theories of contemporary authors such as Lanier, Carr and Schirrmarcher.


Il centenario della nascita di Marshall McLuhan (Edmonton, 21 luglio 1911 - Toronto, 31 dicembre 1980) cade in un periodo particolarmente felice per la rivalutazione della sua opera. Da qualche anno, infatti, una "McLuhan renaissance", come l'ha definita Gary Genosko (GENOSKO, 2005), sta finalmente sdoganando la visione del mondo del grande pensatore canadese, e di tutta la scuola di Toronto, da quel ghetto dove buona parte dell'accademia l'aveva frettolosamente confinata sotto l'etichetta del determinismo tecnologico. Un'etichetta infamante per molti sociologi dei media, ma soprattutto ingiusta nei confronti delle folgoranti intuizioni mcluhaniane oggi, evidentemente, sempre più essenziali per comprendere la realtà dell'economia di mercato postmoderna, nella quale prevale il valore di scambio (di significanti, innanzitutto, giacché abbiamo a che fare con un'economia informazionale) rispetto al valore d'uso. Geert Lovink sostiene che l'erosione dei mass media non si percepisce tanto dal minor utilizzo dei media mainstream (televisione e radio continuano a mantenere quote estremamente significative nelle diete mediatiche delle popolazioni dei paesi più avanzati e la perdita di copie cartacee dei quotidiani vede, in compenso, una crescita delle loro consultazioni su pc, tablet e smartphone), quanto piuttosto dal fatto che "il messaggio stampato o trasmesso via etere ha perso la sua aura e le notizie vengono consumate come se fossero prodotti di intrattenimento" (LOVINK, 2008, p. 63). Indubbiamente una delle cause di questo mutato atteggiamento nei confronti del consumo di informazione è rappresentato dalla crescita della popolazione di Internet che non solo fruisce di documentazione prodotta da altri ma, secondo la logica partecipativa che caratterizza i social network, aggiunge continuamente dati, notizie, commenti e chiacchiere inflazionando in tal fatta il sistema informativo globale al punto da svuotarlo sempre più di significato: mai nella storia umana l'informazione, grazie alla macchina informazionale per antonomasia (RAWLINS, 2001, p. 21), il computer, aveva assunto un valore tale da battezzare un'epoca (l'età dell'informazione), da incidere così profondamente sull'economia mondiale [1], da caratterizzare una cultura globale non per ciò che essa veicola ma per come essa stessa è strutturata.

Ora, com'è noto, il rapporto tra l'evoluzione tecnologica e l'organizzazione sociale è una chiave di lettura che può essere applicata all'intera storia dell'uomo. Commentando il famoso aforisma di McLuhan "il mezzo è il messaggio" Neil Postman parte addirittura dalla storia dell'invenzione dell'alfabeto ad opera di Teuth raccontata nel Fedro di Platone, per poi giungere alla conclusione, sulla scorta della lezione del maestro di McLuhan, Harold Innis, che sempre le nuove tecniche "alterano la struttura dei nostri interessi: le cose a cui pensiamo. Esse alterano il carattere dei nostri simboli: le cose con cui pensiamo. Infine alterano la natura della comunità: il terreno in cui si sviluppano i pensieri" (POSTMAN, 1993, p. 25). L'universalità di questi assunti e la loro validità nel tempo non possono tuttavia celare il fatto che proprio oggi, con il trionfo dell'informatica e della telematica, il mezzo ci appaia più che mai come il vero messaggio. Accantonata finalmente la futile critica rivolta a McLuhan di non considerare adeguatamente il valore del contenuto del messaggio, una critica che non teneva in conto né del suo stile di scrittura che faceva del paradosso un'arma fondamentale per stupire e provocare il lettore, e in special modo i suoi colleghi dell'accademia (LOGAN, 2010, p. 353), né della caratteristica fondamentale del suo pensiero che al percorso analitico preferisce la visione sintetica (BARILLI, 2006, p. 71-74), possiamo finalmente riconoscere come il percorso di ricerca del pensatore canadese si riveli oggi di estrema utilità per comprendere le caratteristiche e le contraddizioni dell'età contemporanea. Se è vero, come scriveva Tolstoj, che "fra le innumerevoli suddivisioni che si possono fare dei fenomeni della vita, una può essere quella di suddividerli in fenomeni nei quali prevale la sostanza e fenomeni nei quali prevale la forma" (TOLSTOJ, 1990, p. 828), perché la scelta mcluhaniana di privilegiare lo studio del mezzo ha oggi un'importanza determinante?

Ciò è dovuto al fatto che l'informazione è una tecnologia leggera e simbolica, altamente flessibile e, proprio per questo, in grado di essere applicata, con le caratteristiche specifiche del proprio linguaggio, ad una gamma estremamente ampia di situazioni. Bisogna però riconoscere che, se ci limitassimo a questa lettura, la rivoluzione attuale non presenterebbe sostanziali differenze rispetto a quella alfabetica. Il punto di frattura fondamentale consiste nel fatto che i sistemi informativi basati sull'energia elettrica sono in grado di controllare i processi delle macchine, in altre parole essi sono fondamentalmente dei sistemi di controllo (BENIGER, 1986). McLuhan coglie in pieno questo duplice aspetto che caratterizza la rivoluzione dell'informazione utilizzando un'efficace metafora: "although an automated plant is almost like a tree in respect to the continuous intake and output, it is a tree that can change from oak to maple to walnut as required" (McLUHAN, 1994, p. 356).

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Il rapporto tra informazione e automazione è la questione che Marshall McLuhan pone al centro dell'ultimo capitolo della sua opera più celebre, Understanding media. Automazione è un termine che - genericamente - sta ad indicare l'utilizzo di apparecchiature e sistemi che presentano un determinato livello di indipendenza operazionale nello svolgimento delle mansioni a loro assegnate. Se tale concetto, in senso lato, può essere applicato fin dall'Ottocento - e cioè nel pieno fulgore dell'era meccanica - per descrivere il funzionamento di particolari apparati in specifiche attività industriali, come nei casi ben noti del telaio automatico di Joseph-Marie Jacquard e della macchina tabulatrice di Herman Hollerith, solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l'invenzione e il perfezionamento del computer, si assiste alla possibilità di applicare una gestione automatizzata ad ogni processo industriale descrivibile con un modello informazionale, nel quale cioè i dati, le operazioni e le funzioni possano essere tradotte in istruzioni da sottoporre all'elaboratore: "automation is information" (p. 346) scrive McLuhan in apertura di capitolo a sancire questo binomio oggi considerato indissolubile. Per questo motivo, e cioè con una visuale retrospettiva, non è affatto secondario contestualizzare cronologicamente l'affermazione mcluhaniana contenuta in Understanding media, volume pubblicato per la prima volta nel 1964: a quel tempo i pochi computer disponibili erano ancora estremamente costosi e notevolmente ingombranti, oltre a necessitare di competenze tecniche elevatissime per poter essere messi in grado di assolvere ad una gamma di funzioni che oggi ci appare irrisoriamente limitata. Eppure già in film come Desk set e The battle of the sexes, entrambi della fine degli anni Cinquanta emerge, sotto la patina di genere della commedia brillante, una questione drammatica: in entrambe le pellicole, interpretate da attori celeberrimi presso il grande pubblico quali Spencer Tracy, Katerine Hepburn e Alec Guinness, la quotidiana routine della gestione aziendale viene sconvolta dalle tiranniche imposizioni di un "cervello elettronico" imposto dalla dirigenza allo scopo di ottimizzare la gestione documentaria. A farne le spese, in primo luogo, sono gli impiegati, considerati come meri passacarte, come relitti di una farraginosa burocrazia di carte e faldoni. Solo la morale consolatoria del finale dei due film salverà la saggezza della tradizione fondata sulle abitudini e sull'esperienza dei lavoratori in grado di mettere una pezza ai pasticci combinati dai computer, ma l'ammonimento lanciato agli spettatori è chiaro: siete pronti ad affrontare la rivoluzione informatica che presto cambierà il mondo? Il tratto profetico dell'ultimo capitolo di Understanding media non consiste, dunque, nel cogliere l'enorme portata di un epocale mutamento tecnologico, evidentemente già percepito a fondo, perlomeno a livello di middle-class, la prima peraltro ad essere toccata dalla concorrenza del lavoro svolto dagli elaboratori, quanto nel delinearne i caratteri più significativi del suo sviluppo futuro. McLuhan, del resto, conosceva dall'interno il potenziale dell'industria informatica e soprattutto, più che delle innovazioni proposte sul versante tecnico, era ben conscio degli obiettivi di mercato verso i quali essa poteva aspirare. Negli anni in cui vedeva la luce Understanding media McLuhan, infatti, svolgeva attività di consulenza per l'IBM su un tema che è tutto un programma: "Non dovete più costruire macchine da scrivere, ma offrire al cliente la risposta alle prospettive di sviluppo delle sue attività" (GAMALERI, 2006, p. 30).

In altri termini, non va ascritto a McLuhan un particolare acume per aver individuato un tema scottante ma, piuttosto, per averci offerto una prima visione a tutto tondo di questa rivoluzione, una rivoluzione talmente sconvolgente da stravolgere per intero le nostre esistenze: come recita il sottotitolo del capitolo, learning a living, da ora in poi bisognerà prepararsi ad abitare in un mondo nuovo, a progettare una nuova vita in un orizzonte tecnologico radicalmente mutato.

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Quali sono i tratti qualificanti di questa trasformazione epocale? A rileggere dopo quasi mezzo secolo l'ultimo capitolo di Understanding media, adottando cioè uno sguardo retrospettivo che consente di abbracciare quasi l'intero sviluppo della storia dell'informatica, si può apprezzare la straordinaria capacità di McLuhan nel saper giocare d'anticipo. Infatti se tutto il resto del volume, capitolo dopo capitolo, è una disamina ex-post degli effetti sociali dei diversi media presi in considerazione, in queste pagine conclusive la riflessione si sofferma su una tecnologia ai tempi ancora balbettante, ancora in cuna, e cioè nella culla, per dirla con un espressione cara agli storici del libro per indicare la pratica artigianale dei prototipografi nella seconda metà del Quattrocento e, al contempo, anche i primi libri a stampa: gli incunaboli. Ecco: se per McLuhan si era senz'altro rivelato più agevole lo stabilire un collegamento tra l'invenzione gutenberghiana e le caratteristiche delle moderne forme di Stato, perché quel processo storico si era di fatto concluso da un pezzo, ben più complesso era riuscire ad immaginare come ci avrebbe coinvolto quell'infante dai caratteri somatici sgraziati e grossolani - il computer - che tuttavia, fin da allora, concentrava su di sé grandi speranze non scevre da preoccupazioni di pari dimensioni. Non a caso, fra le molte incognite dell'epoca, una delle poche certezze individuabili fin da allora era l'effetto di compressione percepibile nelle categorie kantiane di spazio e tempo. Questa certezza si rivelava tale in quanto veicolata, prima che dai sistemi informatici, dalla loro fonte di alimentazione, l'energia elettrica, e dagli effetti che essa aveva già manifestato nelle tecnologie della comunicazione alla quale era stata applicata fin dall'Ottocento. E dunque, in virtù di questo tragitto già percorso, si domanda retoricamente McLuhan, "it is strange, then, that electricity should confer on all previous human organization a completely new character?" (p. 351-352). Meno scontata, tuttavia, era la possibilità di intuire quali forme avrebbe assunto l'applicazione dell'energia elettrica alle capacità di rappresentazione simbolica dei calcolatori e della loro virtualmente illimitata flessibilità. Si consideri la seguente affermazione:

    it is a principal aspect of the electric age that it establishes a global network that has much of the character of our central nervous system. Our central nervous system is not merely an electric network, but it constitutes a single unified field of experience (McLUHAN, 1994, p. 348).

È tutto sommato facile per noi oggi comprendere questo concetto grazie alla quotidiana familiarità che intratteniamo con le reti digitali e con l'abitudine, ormai inveterata, ad applicare il paradigma di Internet spostandolo dal piano infrastrutturale a quello dell'organizzazione dei contenuti, fino alle più avanzate forme di governance aziendale. Come non vedere, ad esempio, nel modello di gestione delle informazioni proposto da Wikipedia una declinazione concreta di quel campo unificato di esperienza del quale parla McLuhan? Anche negli anni Sessanta, certo, i sistemi di comunicazione broadcast come radio e televisione potevano suggerire l'idea di una partecipazione esperienziale comune da parte di quel soggetto collettivo chiamato "il pubblico". E non vi è dubbio che esse pesarono in modo determinante nella formulazione del concetto di "villaggio globale". Vale però la pena rammentare che, anche nel caso di eventi di portata globale, come la conquista dello spazio o la guerra in Vietnam, si trattava di esperienze geograficamente segmentate, a causa del bacino di copertura del segnale, e fondamentalmente indotte da una fruizione passiva dello spettatore.

McLuhan, invece, suggerisce una prospettiva differente che tenta di andare oltre la videosfera televisiva: la sua immagine è quella di una rete che copre l'intero globo e che, nel paragone con il sistema nervoso umano, assume i caratteri di un complesso organico, nel quale le informazioni viaggiano in modalità bidirezionale. Non vi è dubbio che la visione dello studioso canadese sia debitrice nei confronti delle ipotesi formulate da Norbert Wiener, per quanto concerne il concetto di organicità sistemica fondata sui principi di decentramento e di interattività, e da Vannenvar Bush, per il modello ipertestuale di gestione delle informazioni. A questi elementi McLuhan ne aggiunge un altro che consiste nel considerare la rete elettrica globale organica e decentrata come il luogo dove prende atto un'incessante attività di interscambio di informazioni, ove il "consumer becomes producer" (McLUHAN, 1994, p. 349) o, come diremmo con un neologismo in voga oggi, prosumer. L'elettricità dà preminenza al processo, scrive McLuhan, e questo significa che essa, come del resto tutti gli altri media, non sono una "cosa" quanto innanzitutto una "funzione" (BARILLI, 2006, p. 73) e che, di conseguenza, l'aspetto più singolare di questa rete che avvolge l'intero pianeta è il suo pulsare di vita in sincrono con i nostri sistemi nervosi di cui essa rappresenta la più compiuta estensione. È stato più volte sostenuto, fra gli altri da Armand Mattelart (2002, p. 66) che questa visione vitalistica, o forse più propriamente funzionalistica, di McLuhan sia dovuta all'influenza su di lui esercitata dalla lettura degli scritti di Pierre Teilhard de Chardin, autore che, peraltro, viene espressamente citato sia in Understanding media, sia in The Gutenberg Galaxy. Di fatto, come hanno suggerito tra gli altri James Curtis (1978, p. 83) e Elena Lamberti (2000, p. 133), è necessario ampliare di molto i riferimenti culturali che fanno da sfondo a questo modo di intendere i media come un sistema organico fino a giungere, per diretta ammissione dello stesso McLuhan, a San Tommaso d'Aquino, il primo a suggerirgli il principio di complementarietà tra tutte le forme create (LAMBERTI, 2000, p. 137). Questo più ampio novero di riferimenti culturali consente di sganciare il pensiero di McLuhan da una dipendenza assoluta ed esclusiva nei confronti della lezione di Teilhard de Chardin, un'operazione che offre la possibilità di puntualizzare l'originalità della sua riflessione in riferimento a due questioni fondamentali.

La prima riguarda il ruolo di ciascun individuo in relazione al sistema integrato dei media elettrici. Secondo Teilhard de Chardin il singolo è destinato ad annullarsi in un'intelligenza collettiva superiore, in un "senso cosmico" nel quale "gli uomini cessano di rappresentare individualità chiuse su di sé, per diventare parti di un Tutto" (TEILHARD DE CHARDIN, 1997, p. 168), un approdo che per McLuhan non è certo così scontato. Infatti, se è vero che rispetto all'esaltazione del pensiero individuale, e cioè a una delle caratteristiche fondamentali apportate dall'invenzione gutenberghiana della stampa a caratteri mobili, i media elettrici tendono ad appianare la frammentazione fra i saperi e a sollecitare l'integrazione sociale, non c'è ragione di sostenere che questo processo si debba svolgere in modo lineare, che una nuova generazione di media si imponga su quelli precedenti cancellandoli irrevocabilmente, che - in sostanza - la dimensione dialettica che ciascun singolo individuo intrattiene con gli strumenti che lo circondano, subendone gli effetti ma anche interpretandone le potenzialità, sia da considerare irrilevante rispetto all'unione mistica nella "noosfera" di Chardin. Al contrario, secondo McLuhan, l'avvento dell'era elettrica - per il nuovo paradigma generale che essa impone in modo traumatico alla società - impone la necessità di individuare adeguate forme di apprendimento che siano in grado di tutelare la dignità e la personalità dell'individuo. L'ultimo capitolo di Understanding media è costantemente permeato da questa sollecitudine verso una pedagogia che sappia stare al passo con i tempi, che sia in grado di superare le tradizionali divisioni tra i diversi campi del sapere dal momento che "continued in their present patterns of fragmented unrelation, our school curricula will insure a citizenry unable to understand the cybernated world in which they live" (McLUHAN, 1994, p. 347). Si tratta, come si può facilmente osservare, di un problema tutt'ora aperto: in un brillante saggio di pochi anni fa dedicato ai temi della globalizzazione Thomas Friedman ha insistito con forza sul ruolo strategico rivestito dalle strutture educative nel mondo avanzato. Ad esempio, riferendosi all'istruzione universitaria, egli scrive che essa

    assume un'importanza sempre più decisiva a mano a mano che il mondo si appiattisce, perché lo sviluppo tecnologico farà scomparire i vecchi lavori e ne creerà di nuovi e più complessi con una rapidità molto maggiore rispetto a quanto è avvenuto nella fase di passaggio dall'economia agricola a quella industriale (FRIEDMAN, 2006, p. 378).

Ma la questione, ovviamente, investe anche la scuola primaria e la formazione post-universitaria visto che il lifelong learning è uno dei mantra più diffusi quando si parla della società della conoscenza. Di fatto, se l'intuizione mcluhaniana relativa al fatto che l'apprendimento sarebbe potuto diventare in pochi anni il "tipo principale di produzione e di consumo" (McLUHAN, 1994, p. 374) è oggi considerata un punto nodale di tutte le economie avanzate, meno impegno si è dedicato - come osserva più volte Friedman - alla strutturazione di percorsi di apprendimento trasversali e innovativi, in grado di interpretare la complessità del mondo contemporaneo. Eppure era proprio questa la missione che McLuhan si era data, come ebbe modo lui stesso di dichiarare nel 1967 in un'intervista rilasciata a Richard Kostelanetz del "New York Times Magazine": interrogato sul senso della sua ricerca, lo studioso rispose che

    my entire concern is to overcome the determinism that results from the determination of people to ignore what is going on. Far from regarding technological change as inevitable, I insist that if we understand its components we can turn it off any time we choose (KOSTELANETZ, 1967).

E, bisogna aggiungere, l'esigenza di una nuova pedagogia di stampo socratico, nella quale l'insegnante con le proprie cognizioni cede il passo all'insegnante che sa indirizzare gli studenti verso la formulazione delle giuste domande, era il metodo privilegiato che McLuhan identificava per questa riprogrammazione dei percorsi scolastici (MAFFIA, 2006, p. 287). Un metodo che, come denuncia Martha Nussbaum, è oggi sempre più ignorato e misconosciuto, con gravi rischi per il mantenimento in vita di una democrazia vitale, rispettosa e responsabile (NUSSBAUM, 2010, cap. 4). Come non riconoscere in questa sollecitudine mcluhaniana per una nuova pedagogia un bisogno impellente di tutelare la personalità individuale contro un utilizzo acritico degli strumenti della comunicazione? Come assimilare questa posizione al grande abbraccio mediatico che Teilhard de Chardin prefigura come l'avvenire irenico e radioso nel quale le singole intelligenze si fonderanno in una mente superiore?

Attorno al senso che ciascuno di noi è in grado di attribuire al proprio modo di vivere la contemporaneità, e alla disponibilità a guardare verso il futuro con una dose più o meno massiccia di ottimismo, si colloca il secondo elemento di profonda divergenza tra il gesuita e il professore. Un sociologo italiano, Paolo Jedlowski, ha scritto recentemente che

    l'esperienza di un'eccedenza dei compiti, delle attività, degli incontri, resa possibile dalla velocità con cui ci muoviamo e comunichiamo, è indubbiamente diffusa […], ma tale eccesso corrisponde anche, necessariamente, a una ridotta capacità di riflettere sui motivi e sugli scopi per i quali ci lasciamo coinvolgere (JEDLOWSKI, 2005, p. 63).

L'effetto nocivo della combinazione prodotta dalla velocità e della quantità delle informazioni veicolate dai media è noto da tempo anche se esso non veniva identificato con il nome che oggi comunemente gli si attribuisce: information overload. Ad esempio Georg Simmel, già nei primi anni del ventesimo secolo, aveva avvertito l'acuirsi del disagio provocato dall'eccesso di informazione per chi si trova a vivere in una grande città (SIMMEL, 1998, p. 553) e, ancora, nel 1956 George Miller, uno dei grandi della psicologia mondiale, identificava i tratti significativi di una vera e propria sindrome da intasamento di dati nel cervello umano: "confusion will appear near the point that we are calling his «channel capacity»" (MILLER, 1956, p. 83). Con l'avvento dei sistemi informatici e telematici questa tendenza si è amplificata a dismisura: la società che prende forma attraverso una comunicazione principalmente fondata sui sistemi reticolari tende a formare un soggetto connettivo paragonabile a un immenso formicaio (LONGO, 2003, p. 23). E così potremmo realmente trovarci di fronte ai prodromi di quella prospettiva escatologica che Dostoevskij ha descritto dando voce al Grande Inquisitore, affermando che la massima aspirazione dell'uomo, ciò che egli ricerca su questa terra, è "dinanzi a chi genuflettersi, a chi affidare la propria coscienza, e in che modo, infine, riunirsi tutti in un indiscusso, comune e concorde formicaio, giacché l'esistenza d'una unione universale è il terzo e ultimo assillo degli uomini" (DOSTOEVSKIJ, 2005, p. 343). In altri termini, lo straordinario successo degli strumenti di gestione dell'informazione di foggia reticolare sta imponendosi come l'unica plausibile macrovisione del mondo, che tutto contiene e nulla esclude: la network society (CASTELLS, 2002, p. 13-14). Inevitabile dunque che siano in tanti coloro disposti a genuflettersi di fronte alla divinità della Rete, a costo di annullarsi in essa, come il Narciso del mito riletto in chiave mcluhaniana. La posizione ottimistica dei discepoli ideali di Teilhard de Chardin, fra i quali possiamo annoverare Nicholas Negroponte e Pierre Lévy, è la posizione di chi, nella contesa fra il primato della comunicazione (che privilegia la dimensione collettiva e il significante) e quello della conoscenza (che si basa sulla riflessione personale e sul significato), privilegia il primo sul secondo, spesso senza considerare che, se è vero che i due piani del discorso si sono sempre confrontati, è tuttavia evidente come l'ipertrofia del mezzo stia portando al progressivo annichilimento del senso del messaggio. Ora, è singolare notare come McLuhan sia stato fino alla sua morte in pratica ignorato dai grandi esegeti delle forme di comunicazione e organizzazione sociale come Michel Foucault, Jacques Derrida, Jacques Lacan, Gilles Deleuze, Jürgen Habermas, Louis Althusser e Jean-François Lyotard (POSTER, 2010, p. 2), e successivamente collocato nella squadra degli ottimisti in considerazione del fatto che il suo interesse verso gli strumenti della comunicazione gli avrebbe impedito di comprendere il quadro complessivo politico e sociale nel quale essi sviluppavano le proprie potenzialità [2]. Solo di recente, grazie agli studi di autori come Marchand e Genosko, si è resa giustizia alla reale posizione di McLuhan in merito al destino dell'umanità nei confronti delle nuove tecnologie, una posizione che deve essere attentamente valutata nella sua complessità ove coesistono la curiosità dello scienziato nell'osservare un mondo in repentina evoluzione: "to be born in this age is a precious gift"; la speranza del cattolico verso la capacità dell'uomo di crescere e di apprendere: "I have a great faith in the resiliency and adaptability of man"; e il personale disagio esistenziale di fronte ai cambiamenti sociali e psichici causati dai nuovi media:

    I do see the prospect of a rich and creative retribalized society - free of the fragmentation and alienation of the mechanical age - emerging from this traumatic period of culture clash; but I have nothing but distaste for the process of change. As a man molded within the literate Western tradition, I do not personally cheer the dissolution of that tradition through the electric involvement of all the senses: I don't enjoy the destruction of neighborhoods by high-rises or revel in the pain of identity quest. No one could be less enthusiastic about these radical changes than myself. I am not, by temperament or conviction, a revolutionary; I would prefer a stable, changeless environment of modest services and human scale. TV and all the electric media are unraveling the entire fabric of our society, and as a man who is forced by circumstances to live within that society, I do not take delight in its disintegration.

Ci saremmo risparmiati molte pessime interpretazioni del pensiero di McLuhan se i suoi detrattori del tempo avessero letto l'intervista che lo studioso rilasciò al mensile "Playboy" nel marzo del 1969 (NORDEN, 1969)[3]. In quelle pagine, dalle quali abbiamo tratto le citazioni precedenti, McLuhan presenta, come mai in altre occasioni, una sintesi molto chiara della propria posizione di ricercatore curioso e attento ai cambiamenti e, al contempo, di uomo profondamente sconcertato dagli effetti dei medesimi. Quindi attaccare l'etichetta di "ottimista" alla giacca di McLuhan può essere comodo ma, di fatto, si rivela un modo superficiale e riduttivo di intendere il portato complessivo del suo pensiero. Non a caso gli studiosi che oggi si richiamano con più convinzione al suo lavoro sono inseriti nei manuali di teorie dei media nel campo opposto, tra i pessimisti (vedi, ad esempio BOURDON, 2001, p. 32). Anche in questo caso si tratta di un'operazione, seppur comprensibile per chiarezza espositiva, eccessivamente semplificatoria. Tuttavia essa ha il pregio di mettere a fuoco una questione importante: ai giorni nostri chi interpreta la società contemporanea attraverso la sottolineatura del ruolo preminente che le tecnologie hanno su di essa, tenderà a offrirne una visione critica piuttosto che dipingere il quadro del migliore dei mondi possibili. In alcuni di casi, visto il prestigioso curriculum degli autori - certamente non etichettabili come tecnofobici per partito preso - queste critiche relative agli effetti sociali e, addirittura, antropologici prodotti dalla tecnica, hanno avuto un notevole successo editoriale di risonanza internazionale. I saggi di cui stiamo parlando sonoYou are not a gadget di Jaron Lanier, The shallows: what the Internet is doing to our brains di Nicholas Carr e Payback di Frank Schirrmacher (LANIER, 2010; CARR 2010; SCHIRRMACHER 2009).

La tesi portante del volume di Lanier, un informatico al quale si devono studi fondamentali in merito alle interfacce uomo/macchina, consiste nel fatto che le tecnologie digitali ci pongono in una condizione di lock in nei confronti dei loro stessi esiti. In altri termini, alcune scelte di base che sono state fatte in passato relativamente al disegno dei computer e delle applicazioni che tutti noi oggi utilizziamo, ci hanno inchiavardato dentro ad una logica di gestione delle informazioni che è sfuggita di mano agli stessi progettisti, imponendoci di operare secondo scelte obbligate che sono generate all'interno dei costrutti dei sistemi di elaborazione. Questo fenomeno, riscontrabile a tutti i livelli, dall'organizzazione delle icone sul nostro desktop, al modus operandi collaborativo delle reti sociali, produce esiti disastrosi quali l'asfissia di ogni possibile scenario alternativo nell'organizzazione dei dati vincolata dalle rigide e manicheistiche alternative del digito binario o ancora, come è facile notare di fronte agli entusiasmi frequentemente ingiustificati verso ogni applicazione 2.0, la convinzione diffusa che le folle interconnesse e conversanti possano rappresentare un grado di intelligenza superiore rispetto a quelle dei singoli individui.

Nicholas Carr (un altro tecnofilo della prima ora, editorialista di testate prestigiose e a lungo direttore della "Harvard Business Review"), come si evince dal titolo del suo bestseller, si pone su posizioni ancora più avanzate: l'utilizzo delle nuove tecnologie sta modificando profondamente l'attività del nostro cervello dal momento che le aree attivate con la pratica della lettura condotta sul libro cartaceo vengono sottoutilizzate, mentre quelle collegate alla lettura su schermo tendono all'ipertrofia. Il risultato inevitabile è che il pensiero logico-deduttivo, lo scavo interiore, l'esercizio della facoltà della memoria, e cioè le specifiche abilità collegate alla cultura della pagina a stampa, saranno fatalmente destinate a passare in secondo piano rispetto alle competenze fisiologiche necessarie per la fruizione dei nuovi media, i quali privilegiano la paratassi, e cioè il multitasking, rispetto all'ipotassi.

Si tratta di una riflessione condivisa anche da Frank Schirrmacher che nel suo lavoro, non troppo provocatoriamente, afferma come tra non molto non sarà più possibile capire "dove inizia il computer e dove finisce il cervello" (cap. 18) prefigurando una sorta di isomorfismo tra la psiche umana e i sistemi di gestione dell'informazione provocato dall'effetto di questi ultimi sul complesso delle nostre facoltà cognitive.

In altre parole, ciò che si evince dalla lettura dei saggi di questi autori, è la sensazione di non poter essere più in grado di esercitare un efficace controllo umano su quel sistema di controllo automatizzato che le macchine informatiche hanno consentito di porre in atto. Senza giungere - almeno fino ad ora - a forme drammatiche di aperta ribellione contro l'uomo da parte dei computer (come, ad esempio, avevano ipotizzato Asimov e Kubrick), ci si trova a vivere in una condizione di dipendenza nei loro confronti. Infatti le reti telematiche si presentano come un'infrastruttura connettiva che rende possibile un dialogo diretto fra le macchine, senza più necessariamente prevedere l'istanza di un'intermediazione umana: i sistemi informatici sono sempre più in grado di autoalimentarsi, di conseguenza i computer finiscono per prendere decisioni sulla base di dati trasmessi da altri computer, in una sorta di effetto cascata ("event cascade") con risultanze spesso imprevedibili.

Rileggendo l'ultimo capitolo di Understanding media appare evidente come McLuhan fosse conscio di questi rischi: se il multitasking è un elemento caratterizzante dei sistemi informativi - "this is why those involved in automation insist that it is a way of thinking, as much as it is a way of doing. Instant synchronization of numerous operations has ended the old mechanical pattern of setting up operations in lineal sequence" (McLUHAN, 1994, p. 349) - ciò è dovuto al fatto che essi sono stati creati e vengono sviluppati cercando di imitare la fisiologia umana: prima in modo approssimativo, poi in maniera sempre più sofisticata, si può fare in modo che i computer simulino "the process of consciousness, just as our electric global networks now begin to simulate the condition of our central nervous system" (p. 351). Tuttavia, questa liberazione dalle attività routinarie che i cosiddetti "servomechanisms" svolgeranno al posto nostro, inevitabilmente impone un prezzo che consiste nel mettere a dura prova "our inner resources of self-employment and imaginative partecipation in society" (p. 358). Stiamo insomma partecipando ad una partita nella quale è in gioco la sopravvivenza di quella categoria del "singolo" che Kierkegaard vedeva come unico baluardo contro la "confusione del pantesimo" (KIERKEGAARD, 1960, p. 467), un rischio evidentemente non avvertito da chi non perde occasione per esaltare le potenzialità dei social network che, appunto in quanto sociali, presentano lo svantaggio non indifferente di limitare l'infodiversità, privilegiando un minimo comun denominatore che è la media - algoritmicamente generata - di reciproci "rating", "liking" e "linking" disseminati dagli utenti nelle varie piattaforme 2.0 (Metitieri, 2009).

Ciò che colpisce è come i tecno-entusiasti abbiano scambiato questa possibilità di operare simultaneamente e organicamente su più piani, una possibilità offerta in primo luogo dalla convergenza di tutti i sistemi informativi verso il digitale, come il definitivo superamento dei vincoli che, nel mondo analogico, caratterizzavano con le loro specificità ciascun mezzo di comunicazione: "the medium is not the message in the digital world" (NEGROPONTE, 1995, p. 71) ha affermato Nicholas Negroponte senza rendersi conto come, invece, nella nostra era, l'era dell'automazione, abbiamo la possibilità di osservare nella forma più compiuta l'elevamento a potenza del potere della tecnica, e dunque del mezzo sul messaggio. Come osserva il filosofo Emanuele Severino:

    nella memoria e nella comunicazione totale informatico-telematica, il messaggio essenziale della tecnica è cioè la tecnica stessa e quindi la sua capacità di organizzare i messaggi della memoria e della comunicazione totale. Il messaggio autentico è cioè costituito da quello che comunemente si considera come un semplice mezzo, come un medium che serve alla trasmissione dei messaggi. Al di là della consapevolezza che Marshall McLuhan può averne avuto, questo è il significato più profondo dell'affermazione che il medium è il messaggio (SEVERINO, 1996).

E dunque si capisce bene il rammarico che McLuhan doveva provare, col trascorrere della propria esistenza, nel vedersi sfuggire di mano la possibilità di assistere in prima persona all'inverarsi di questa sua fondamentale intuizione.


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[1] Oltre il 70% dell'economia dei paesi del G7 si basa su asset intangibili e, cioè squisitamente informazionali, come riporta Luciano Floridi (2010 p. 5).

[2] Un'eccellente ricostruzione del dibattito critico suscitato nel mondo universitario dall'apparizione dei lavori di McLuhan si trova in Baran e Davis, 2008, cap. 8.

[3] Val la pena di rammentare come nel suo periodo d'oro - e cioè fino alle soglie del Duemila - "Playboy" pubblicasse ogni mese un'intervista estremamente ampia e approfondita a un personaggio celebre del tempo. La scelta di McLuhan di comparire su questo mensile rientra in una sua strategia comunicativa complessiva che non tralasciava di utilizzare qualsiasi mezzo che gli consentisse di entrare in contatto con un pubblico più ampio rispetto a quello ristretto degli addetti ai lavori. Eric Norden era uno degli intervistatori più importanti del giornale: infatti, oltre a quella dedicata a McLuhan, realizzò interviste a Truman Capote, Stanley Kubrick, Gore Vidal e Stephen King.

 

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