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ISSN: 2283-303X

La biblioteca dappertutto

in Bibliografie, biblioteche e gestione dell'informazione: un omaggio a Francesco Dell'Orso


di Gabriele Mazzitelli (in linea da: 17 maggio 2016)
Intervento tenuto al convegno "Metodi, scelte, strumenti. Il nuovo catalogo della rete URBS" tenutosi all'Istituto Svizzero di Roma l'11 giugno 2015.

Salendo impacciato alla tribuna del primo Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura a Parigi nel giugno del 1935, Boris Pasternak ebbe il coraggio di pronunciare poche frasi in cui sintetizzava il primato della poesia, la naturalezza del gesto poetico, lodando la semplicità dei sentimenti, quella semplicità che in altri versi aveva definito più di ogni altra cosa necessaria agli uomini, i quali, però, - scriveva - intendono meglio tutto ciò che è complesso. Erano passati solo cinque anni da quando Vladimir Majakovskij aveva messo “il punto di una pallottola alla sua fine”. E in quella Parigi che sembrava quasi attendere che all’inutile strage della prima guerra mondiale, il nazismo ne aggiungesse un’altra ancora più terribile, Pasternak aveva potuto vedersi con Marina Cvetaeva, altra voce inarrivabile della incredibile e ineguagliabile stagione della poesia russa del Novecento, durante un fugace incontro in cui le parole erano rimaste in gola e l’intensità degli sguardi aveva dovuto sopperire al dolore di sapersi fuggiaschi, l’una esiliata in un paese straniero, l’altro esule in patria. In quel giorno di giugno Pasternak, schivo, timido, salì sul palco degli oratori, lui che fino all’ultimo momento aveva pensato di fingersi malato pur di non dover parlare in pubblico e disse:

“La poesia rimarrà sempre eguale a sé stessa, più alta di ogni Alpe d’altezza celebrata: essa giace nell’erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi a raccoglierla da terra; essa sarà sempre troppo semplice perché se ne possa discutere nelle assemblee; essa rimarrà sempre la funzione organica dell’uomo, essere dotato del dono sublime del linguaggio razionale: di maniera che, quanto più ci sarà felicità a questo mondo, tanto sarà più facile essere artisti.”

La poesia dappertutto, dunque, come l’erba. E se, come la poesia e l’erba, anche la biblioteca fosse dappertutto? Ma non nel vagheggiamento o vaneggiamento di chi vi lavora e si sente al centro del mondo per vacuo orgoglio, ma come considerazione generale, come semplice constatazione dell’esistente.

Si potrebbe partire dalla difficoltà della definizione: chi sa dire con certezza cosa sia la poesia, come si concretizzi l’agire lirico? Chi sa dire oggi, come ieri, cosa sia una biblioteca? Ognuno forse ha una sua idea, frutto della propria esperienza di vita e non c’è manuale che tenga. Ma se volgiamo lo sguardo al susseguirsi dei giorni, al procedere del nostro lavoro di bibliotecari ci rendiamo conto di come ci siano dei principi che regolano il nostro quotidiano essere al servizio degli altri, di come vi sia un’etica che trascende i codici deontologici e si tramuta in una disponibilità non consueta.

A cominciare dal momento in cui un utente entra in biblioteca, che pure a volte è oggetto di critica: regole di accesso o di utilizzo del materiale troppo severe, come magari capita che sostenga qualcuno. Eppure insegnare e imparare a rispettare delle norme è il primo principio di una convivenza civile. Stabilire delle regole non è l’esercizio di un imperio, ma il fondamento della condivisione. È bello rispettare le regole come è bello pagare le tasse, esercitare il proprio ruolo di cittadini consapevoli, indipendentemente dal cattivo esempio che a volte viene dall’alto. Il patto che ci lega, perché sia di sana e robusta Costituzione (scritto con la c maiuscola), non può essere condizionato dal malgoverno e dal cattivo uso delle risorse pubbliche. Fare il proprio dovere non è un obbligo, dovrebbe essere un piacere.

Si entra in biblioteca e si osserva il silenzio, delicata sinestesia della nostra lingua. “Silenzio – è ancora Pasternak a suggerircelo coi sui versi – fra le cose che ho udito tu sei la migliore”. Piazze del sapere le nostre, ma non abitate dal confuso vociare della folla, bensì dalla necessità della concentrazione che richiede lo studio. Senza cinguettii, né suonerie in agguato, bensì ancora una volta, quelle piazze, alimentate dalla scelta di condividere, nella molteplicità dei volti e delle vite che ci circondano in una sala di lettura, la solitudine del nostro percorso interiore. Un percorso che proprio perché si dipana in biblioteca include naturalmente gli altri e non potrebbe essere diversamente.

Nessuno può ragionevolmente negare l’impatto che la tecnologia ha avuto nei nostri luoghi di lavoro: è cambiato molto, anzi moltissimo nel modo in cui l’utente guarda al nostro servizio, sono mutate le richieste che ci vengono rivolte e anche gli spazi della biblioteca possono essere oggetto di adeguamenti non indifferenti. Non più scaffali pieni di riviste e di libri, ma PC, ormai anch’essi in numero calante visto il diffondersi di dispositivi che consentono facilmente la navigazione in rete. Le sale di lettura possono ridursi a spazi molto più ristretti, sorta di meeting point in cui l’utente sembra quasi cercare un po’ di riposo, piuttosto che lo sprofondarsi nello studio. Ma questo è un dato superficiale. L’essenza della biblioteca non è questione di metri quadrati, ma di metodo. Sappiamo che i software gestionali si adeguano ai tempi: ormai gli Opac assomigliano alla vetrina di un libreria online. La filosofia dell'user-friendly sembra vincere, spingendoci a semplificazioni che paiono essere un cedimento del rigore catalografico, come un tempo si paventava. L’information technology ci spinge verso il knowledge management: è l’inglese, come il “latinorum”, qui è d’obbligo. Ma al di là della forma la sostanza non cambia, non deve cambiare.

A mio avviso se c’è un rischio che corriamo è quello di svendere l’idea di biblioteca, perché si fa molta fatica a imporre quello che deve essere e che da sempre è il compito di un istituto bibliotecario: consentire lo studio, mettere a disposizione e favorire la diffusione dell’informazione e della conoscenza a chi per qualsiasi motivo ne abbia necessità. In questo senso non mi piace troppo parlare di biblioteconomia sociale. Non ce n’è bisogno. Da Asinio Pollione in poi questo concetto è insito nell’idea di biblioteca pubblica. Personalmente non credo che sia necessario pensare a organizzare corsi di danza o magari di scrittura creativa per attirare utenti in biblioteca. Dobbiamo innanzitutto pretendere che le nostre biblioteche assolvano pienamente al compito per il quale sono nate. E poi in caso verranno le attività alternative. Certo dipende, è logico, anche dalla tipologia della biblioteca. È evidente che ci sono istituti più naturalmente portati a un possibile ampliamento dello spettro del loro campo d’azione, ma non vorrei che il dedicarsi ad altro cercasse di mascherare quella che può essere un’amara verità: la sconfitta delle biblioteche come servizio pubblico essenziale. È appena stato pubblicato dall’AIB il settimo Rapporto sulle Biblioteche italiane relativo agli anni 2013/2014, nella cui presentazione si legge: “Tutte le tipologie di biblioteca sembrano avviate a un ineluttabile declino e a una prospettiva di marginalizzazione”.

Ma come è possibile? Come è stato possibile arrivare a questa considerazione così amara? Ma se la biblioteca è dappertutto, vuol dire che questo declino coinvolge l’intera società, il nostro essere uomini nel XXI secolo? Ciascuno di noi darà la sua risposta. A me piace ricordare quanto affermai nell’intervento che tenni il 7 novembre 2002 in occasione dell'incontro URBS 1992-2002. L’Unione Romana Biblioteche Scientifiche compie 10 anni. Bilancio di un'esperienza. Riprendo alcune affermazioni che mi pare possano essere ancora valide: “Cooperare non significa soltanto condividere un software o delle macchine, ma soprattutto avere delle passioni, delle emozioni e degli entusiasmi comuni. Cooperare non vuol dire legarsi burocraticamente ad altre istituzioni, adottando magari gli stessi regolamenti, bensì accettare come valore fondamentale il rispetto della diversità che poi è l’unico modo per ottenere dei risultati veramente condivisibili da tutti. Perché proprio comprendendo ciò che ci rende diversi è possibile valutare appieno quali siano i campi di azione che ci possono accomunare, consentendo significativi risparmi di risorse e di energie. Per questa ragione cooperare, però, è difficile. Perché richiede una grande maturità a livello umano e la convinzione profonda che lo spirito di servizio debba animare senza incertezze chi esercita la professione del bibliotecario. Perché la forza della cooperazione è la forza di uomini e donne determinati a compiere una missione”.

Vi era in quell’intervento un ottimismo doveroso, che oggi in me è venato da molte perplessità. Condivisione, compartecipazione, cooperazione appunto sono e restano parole chiave del nostro agire quotidiano, ma malgrado gli sforzi, si continua a fare molta fatica perché si riesca a riconoscere al bibliotecario quel ruolo sociale che pure in quell’intervento di tredici anni fa richiamavo: “La forza della cooperazione si deve anche manifestare, non vi è dubbio, in una sempre maggiore riconoscibilità sociale dei bibliotecari. Di certo non per rivendicare i diritti di una improbabile ‘casta’, ma perché questa riconoscibilità sarebbe l’attestazione che i bibliotecari, pur in epoca di disintermediazione, svolgono una funzione sentita come fondamentale”.

Purtroppo la crisi economica sta facendo vincere l’idea che si possa sempre affidare al ribasso il compito di svolgere mansioni complesse. In questo modo si rischia una pericolosa perdita di identità: lo studio e l’elaborazione di testi viene ridotta a un taglia/incolla, l’approfondimento bibliografico si fa superficiale, affidato a un motore di ricerca, utilissimo, ma forse insufficiente a esaurire quanto dovrebbe essere necessario indagare. La velocità e la comodità rischiano di diventare pressapochismo. Ma come è possibile che una comunità non si renda conto, al di là delle molte belle parole spese spesso a vanvera intrise di false verità e di vere bugie, del ruolo fondamentale che gioca l’istruzione, la cultura, lo studio? Chi opera nelle università ogni giorno si sente dire che non vi è nulla di più importante del servizio bibliotecario e poi, tranne poche oasi felici, si assiste al quotidiano taglio dei fondi, al predominio di un’arroganza che diventa ignoranza, proprio quando non si fa altro che discettare di problem solving.

Quando il 14 aprile 1930 Vladimir Majakovskij decise di darsi la morte, Boris Pasternak scrisse che quello sparo era risuonato come un Etna in un pianoro di codardi e di codarde. Roman Jakobson, sull’onda dell’emozione, scrisse un breve e densissimo saggio il cui titolo, nella sua semplicità, condensava il senso e il significato di un’esistenza: Smert’ poeta (Morte di un poeta). Una generazione che ha dissipato i suoi poeti è, invece, il titolo che si è dato alla traduzione italiana di questo scritto, titolo che riprende un passo di Jakobson che suona come una condanna quasi definitiva. Non vi nascondo che a me pare che la mia generazione abbia dissipato le sue biblioteche, in un paese che si è macchiato dello stesso delitto. Questa riflessione, di certo, amarissima non mi spinge, però, a un cupo pessimismo, ma a sperare in un futuro migliore.

Il cambio della ruota si intitola una poesia del 1953 di Bertold Brecht:

Sono seduto sul ciglio della strada.
Il conducente cambia la ruota.
Non sono contento di dove vengo.
Non sono contento di dove vado.
Perché guardo il cambio della ruota
Con impazienza?

La biblioteca, e qui la citazione da Ranghanatan è doverosa, è un organismo vivente e per questo permea di sé tutto l’esistente: la biblioteca è dappertutto, anche in gesti che ci paiono magari estranei a quella idea di totalità che invece la biblioteca riassume in sé.

Un organismo vivente ha bisogno di ossigeno. L’ossigeno delle biblioteche non sono solo i finanziamenti necessari, ma anche un contesto culturale che dia loro la possibilità di essere parte attiva della vita di tutti. E la figura del bibliotecario è quella di un intellettuale che consenta a questo complesso meccanismo di muoversi, di cogliere le istanze della società che lo circonda.

L’11 febbraio 1921 nel corso di una conferenza tenuta alla Casa dei letterati in occasione dell’ottantaquattresimo anniversario della morte di Puškin, il poeta Aleksandr Blok dichiarava: “Puškin morì. Non fu affatto la pallottola di D’Anthès ad ucciderlo. Lo uccise la mancanza d’aria”. La biblioteca come la poesia è funzione organica dell’uomo, come respirare appunto. Proseguiva Blok: “Pace e libertà. Sono indispensabili al poeta per la liberazione dell’armonia. Ma vengono tolte anche la pace e la libertà. Non la pace esteriore, ma quella creativa. Non la libertà puerile, non quella di atteggiarsi a liberale, ma la libertà di creare, la libertà segreta. E il poeta muore, perché non ha di che respirare”.

È anche nostro compito fare in modo che la poesia e le biblioteche possano sopravvivere, che non restino soffocate dalla mancanza d’aria: “di maniera che, quanto più ci sarà felicità a questo mondo, tanto sarà più facile essere artisti” e - aggiungo io - essere bibliotecari.

 

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