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ISSN: 2283-303X

Ricordo di Francesco

in Bibliografie, biblioteche e gestione dell'informazione: un omaggio a Francesco Dell'Orso


di Luigi Cimmino (in linea da: 17 maggio 2017)

Ho conosciuto Francesco il secondo anno di università, lui era al primo, durante un esame. Ero andato a gongolare come uditore all'appello di un docente allora considerato da molti di noi, me compreso, di grande livello, e difficile, riservato a pochi epopti. Dico gongolare perché, riuscito l'esame più che bene, credevo di voler assistere ancora  alle interrogazioni per un interesse fine a se stesso, per imparare ancora, meglio e di più, per l'atmosfera della discussione, mentre in realtà, una realtà nemmeno troppo inconscia, volevo gioire nel costatare che gli altri con i concetti sapevano giocare di meno e giustamente andavano peggio di me.

Francesco aveva un lungo cappotto grigio e una barba inquietante che oggi diremmo talebana e rispondeva alle domande con poche parole, a volte contraddicendo quando veniva corretto, e comunque sempre fissando attonito il professore e le sue domande. Di che parlava il professore, chiariva così l'indecifrabilità del mondo? Va premesso che le speculazioni in cui tanto ci impegnavamo in quella materia erano solo parole, giochetti linguistici neppure granché sofisticati in cui mi ero esercitato e dove riuscivo. Oggi non so neppure dire se ci credessi davvero; forse è giusto riconoscere che ci credevo perché gli sproloqui mi davano importanza, e questo bastava. Il fatto è che, a giudicare dall'esterno, Francesco era andato peggio, ma come me aveva avuto il massimo. Dopo l'esame sentii poi che il professore sussurrava all'assistente di non lasciarsi ingannare: il ragazzo era intelligentissimo e gli ricordava se stesso - il professore - da ragazzo; come dire: la stessa forza intellettuale e lo stesso carattere. Così, alla mia malafede - credevo di essere infastidito perché rispetto a me aveva avuto un voto immeritato, mentre percepivo con disagio un'autonomia morale e di pensiero che mi sognavo (solo allora?) - si aggiungeva la malafede del professore, che col senno di poi sicuramente somigliava al portentoso studente quanto una pecora somiglia a un daino. Dopo l'esame avevamo cominciato a parlare e melensamente avevo cercato di convincere Francesco che le domande cui non aveva risposto e che aveva contestato, un senso, profondo, lo avevano e che avrebbe dovuto rispondere così e così. Francesco aveva ribattuto un paio di volte poi, con uno schiaffo al mio orgoglio peggiore del primo, mi aveva detto che, forse, avevo ragione: se per lui continuavano a rimanere sproloqui poteva darsi non li capisse.

Perché mi ricordo come fosse ora questo primo episodio? Sono passati più di quarant'anni! Perché è l'immagine più vera che mi ero fatto di lui e che permane. Era l'idea di una persona con un rigore e autonomia difficile, tanto difficile da trovare. In parte, in gran parte, almeno a me, insondabile.

E poi? Poi sono venuti anni di frequenza, di discussioni, di conoscenza dei reciproci parenti, ambienti, amici, amori. Siamo stati spesso insieme. A ripensarci ora ci siamo frequentati molto. Ma allora perché poi, molto prima della malattia, abbiamo cominciato a vederci sempre meno? Gran parte del tempo passato con lui non era del resto fatto di parole, ma di risate, a crepapelle. Francesco aveva uno sconfinato senso del ridicolo e una gran capacità di imitare e ridurre a macchietta. Me lo sono chiesto più volte: Francesco, ma il verso lo facevi di nascosto anche a me?

Non c'erano contrasti fra noi, forse solo su qualche opinione, eppure sotto sotto - una volta me l'ha detto chiaro e tondo - pensava che non fossi del tutto sincero con me stesso, e quindi con gli altri, anche con lui. Tornava a spigolare la malafede del primo incontro. E io replicavo e replico che sì, in parte aveva ragione, ma che da questo "in parte" non riesco a venir fuori perché non se ne deve venir fuori: lui aveva il rigore e la lucidità per dire sempre quanto pensava, a qualsiasi costo, io spesso non so quello che penso; ci vuole tempo e fatica per sapere cosa davvero pensiamo, molto si capisce solo dopo. Così lui mi rimproverava di non essere abbastanza trasparente, io gli rimproveravo di esserlo troppo e a volte di difendersi, più di me, con la lucidité. Una volta arrivò a dirmi, sempre sull'altare della sincerità adamantina, che non eravamo davvero amici. Ma sì che lo eravamo. Zio Kencio, così l'aveva battezzato mio figlio Nicolino, era sempre presente e ricordato e discusso in casa e mai, mai come un estraneo. Può ben essere che la verità sia più semplice e piana: Francesco, tu non stavi così bene con me come io stavo con te. Ma di questo, e dell'ultimo periodo prima che te ne andassi, spero proprio ci sia occasione di riparlare. Dobbiamo chiarirci.

Dei meriti di Dell'Orso come bibliotecario, di quanto ha lasciato con il suo lavoro, non so decentemente parlare, anche se è indubbio che un tipo così l'università di Perugia, dopo averlo trascurato, lo sognerà a lungo. Però, senza retorica, posso dire di una sua eredità in itinere assai concreta. Francesco era persona che colpiva, che scuoteva anche i soggetti meno sensibili. Così, in tutti quelli che l'hanno conosciuto, a cominciare dal sottoscritto, in alcuni più in altri meno, è rimasta impressa la sua integrità e autonomia da alieno, magari per essere rimossa. E quelli che l'hanno conosciuto, se anche di poco sono stati scossi e modificati in meglio, trasmetteranno queste modifiche ad altri ancora, e così via, di tempo in tempo, di generazione in generazione. Mi piace pensare, come in un racconto di Edgar Allan Poe di cui non ricordo il nome, che alla fine dei tempi, tratto per tratto, anche infinitesimale, da queste innumerevoli modifiche venga fuori un'intera e immensa galassia.

 
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